Musica per il periodo pasquale

Messiah HWV56

Oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra 

Testo: Charles Jennens

Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, 2 oboi, 2 fagotti, 2 trombe, timpani, 2 violini, viola, basso continuo


Composizione: 22 agosto – 12 settembre 1741


Prima esecuzione: Dublino, New Music Hall, 13 aprile 1742

Edizione: J. Walsh, Londra, 1749

Fu a una svolta della sua vicenda artistica, che Georg Friedrich Händel compose il Messiah, l’opera alla quale, emblematicamente, è da allora associato, per antonomasia, il suo nome. L’anno di composizione, il 1741, rappresentò per Händel l’abbandono di una straordinaria e tormentata carriera operistica (nell’inverno, con Deidamia), nonché della lingua, l’italiano, cui la sua attività di compositore di musica vocale era stata legata sin dagli anni di apprendistato. Come spartiacque tra i due periodi del compositore, l’operista «italiano» del 1741 e l’autore di oratori in lingua inglese del 1742, si colloca l’invito ad animare una stagione al di fuori dei riflettori londinesi, nell’appartata Dublino. Da lì il Messiah, terminato nel settembre 1741, intraprende la sua marcia trionfale il 13 aprile 1742, continuando a occupare il suo autore fino all’anno della morte, con una serie notevole di revisioni e rifacimenti per successive produzioni dell’oratorio, nel 1742, ’43, ’45, ’49, ’50 (da quest’ultimo anno Handel volle legare l’oratorio al Foundling-Hospital, istituzione per l’infanzia abbandonata cui riservò l’esecuzione dell’opera), e soprattutto imponendosi nell’immaginario collettivo dei paesi anglosassoni come un patrimonio spirituale insostituibile, parte integrante della propria identità culturale.

Con quest’opera il compositore si rifà a quel genere di oratorio da concerto in lingua inglese, che egli stesso aveva contribuito a sviluppare, forte di una ricca esperienza nel campo della musica sacra corale maturata in tre diverse tradizioni nazionali, legate ad altrettante lingue: la passione luterana, frequentata nella madrepatria (Brockes-Passion, 1716 ca., apprezzata anche da Johann Sebastian Bach), l’oratorio, conosciuto nel suo lungo soggiorno italiano (Il trionfo del tempo e del disinganno, 1707, La Resurrezione, 1708) e l’anthem, praticato nella patria d’adozione, l’Inghilterra (Chandos AnthemsCoronation Anthems). 

Il testo dell’oratorio è tratto interamente dalla Bibbia (la Authorised Version of the Bible e la traduzione «Coverdale» dei salmi proposta dal Book of Common Prayer) secondo una sofisticata operazione di montaggio da libri remoti per cronologia e genere letterario. Il complesso e particolare collage propone una celebrazione epica della figura del Messia dall’Antico al Nuovo Testamento, evitando completamente, a differenza delle Passioni bachiane, la presenza del personaggio-Cristo: viene operata dunque una rappresentazione «obliqua» della figura di Gesù, per il quale non si evoca nessun riferimento storico preciso, fatta salva la nascita. Al centro del testo si colloca dunque il dramma della redenzione dell’umanità, compiuta da un personaggio mai chiamato col suo nome storico (l’oratorio si intitola infatti Messiah). Autore del libretto è Charles Jennens (1700-73), membro ortodosso della Church of England, di quindici anni più giovane di Händel e suo fervido ammiratore almeno dal 1725. Per il compositore aveva già scritto il libretto dell’oratorio Saul e forse è suo anche quello dell’innovativo Israel in Egypt, in cui predominante è il ruolo del coro. Le tre parti in cui l’oratorio è suddiviso riguardano rispettivamente l’avvento del Messia, la sua Passione Morte e Resurrezione, e la sua seconda venuta gloriosa. Jennens si sofferma su alcuni libri della Bibbia, trascegliendo talvolta una serie di versetti successivi da una medesima pericope, talora operando modesti interventi testuali per esplicitare una lettura in chiave cristologica dei passi veterotestamentari. Inviò inoltre al compositore due epigrafi dotte da apporre sul frontespizio del libretto: una citazione dalla IV Egloga di Virgilio («Majora canamus», v. 1, in ossequio all’interpretazione medievale in chiave cristiana del puer celebrato dal poeta pagano) e il passo paolino recitato nella presente registrazione. Il testo del libretto è stato riprodotto secondo l’edizione londinese del 1743, di cui si sono mantenute maiuscole e punteggiatura. Nella traduzione si è conservato il senso della versione inglese intonata da Händel, malgrado questa talora possa comportare qualche fraintendimento nell’interpretazione del testo biblico.

Händel dimostra singolare sensibilità nei confronti dei passi, normalmente in prosa, scelti da Jennens, straordinaria abilità nel modulare il tono espressivo all’interno di un medesimo contesto. Si consideri ad esempio il testo biblico con cui l’oratorio si apre, intonato in quattro forme diverse: arioso, accompagnato, aria e cor, seguendo la suggestione, rispettivamente, della parola di consolazione, dell’invito alla conversione, della varietà del linguaggio metaforico e infine della menzione della gloria divina. Analoga fantasia dà corpo a un successivo passo di Isaia (53,3-6), risolto in un’aria di eccezionale rilievo seguita da tre cori radicalmente diversi l’uno dall’altro. E proprio il peso straordinario di quell’aria, «He was despised», all’interno della partitura consente un’altra riflessione. Il compositore, infatti, non accetta passivamente il piano predisposto da Jennens, ma vi interagisce imponendo una propria strategia, attraverso mezzi squisitamente musicali, serrando o diluendo, dilatando o contraendo i tempi di sosta su questo o su quel passo, influenzando insomma in modo determinante la concentrazione dell’ascoltatore e perciò la sua interpretazione dell’epos sacro. Così la chiusa della Parte Prima, sin dalla Pifa, si configura come una sorta di scena in cui l’unico episodio storico del libretto (la Notte di Betlemme) viene organizzato secondo una retorica propriamente musicale. 

Prodigio di freschezza inventiva, il Messiah nacque in appena tre settimane, sul finire dell’estate 1741: a chiusura della Parte Terza l’autografo riporta la data del 12 settembre e quella del 14 dello stesso mese per l’orchestrazione (una settimana prima di attaccare la composizione di Samson). Se quest’ultima operazione non dovette richiedere eccessivo impegno (la strumentazione è ridotta infatti all’essenziale) e se è pur vero che Händel attinse in taluni casi a pagine composte in precedenza (specialmente duetti da camera, diversi dei quali composti di recente), resta comunque prodigiosa l’efficacia della tonalità complessiva dell’opera, risultato della varietà di atteggiamenti di cui si animano le pagine bibliche che Jennens aveva antologizzato da fonti eterogenee (profeti, salmi, vangelo, lettere apostoliche), annullando la possibilità di una qualsiasi continuità narrativa e perciò drammatica. Il miracolo è affidato ad alcune scelte stilistiche strategiche. Innanzitutto la scrittura per il coro, che tempera il contrappunto rigoroso della tradizione tedesca con la tecnica inglese dell’anthem (sperimentata dal compositore sin dal suo arrivo a Londra, tanto nei Chandos quanto nei Coronation anthems) ottenendo un’amalgama fluida, per cui, nel corso di un medesimo coro, il gioco imitativo, raramente complesso e talora soltanto pseudo-contrappuntistico, si scioglie nel dialogo concertante tra le voci, si ricompatta in motti omofoni, sorta di ritornelli vocali sostenuti dall’orchestra o da questa echeggiati, dando luogo a una varietà di soluzioni che rispondono docili e imprevedibili alle sollecitazioni del testo. Una formula che dimostra nell’Hallelujah! tutta la sua intramontabile efficacia. Altrettanta disponibilità a modulare le strutture formali si può trovare nei numeri solistici, che presentano il variegato campionario riscontrabile nelle opere di Händel. I recitativi infatti spaziano dal semplice (o secco) all’accompagnato e all’arioso, con prevalenza di quest’ultimo in alcune zone sensibili del testo (ad esempio, su uno splendido arioso il Messiah si apre).

Le arie offrono le tipologie più diverse, dalla forma grande coi da capo, alla sua variante dal segno, a un da capo dissimulato perché l’ultima anta dell’aria è sostituita da un coro, all’arietta bipartita, ad arie che propongono più sezioni giustapposte, proseguendo estenuate (ipnotiche, si direbbe) finché non viene esaurito il testo biblico, badando bene di far percepire all’ascoltatore l’unitarietà musicale del pezzo. Infine, alcuni numeri solistici vengono agganciati a una pagina corale che ne amplifichi la portata, garantendo una relazione diretta ed efficace tra le due componenti fondamentali della partitura, i solisti e il coro. Altre frecce sono chiaramente riconoscibili nell’arco di Händel, elementi che insieme conferiscono un’unitarietà e un «timbro» specifico all’oratorio: formule di accompagnamento (come il drammatico ritmo puntato, che pervade cori e recitativi); indicazioni di tempo (quel Larghetto che apre il Messiah e così spesso ritorna); una certa reticenza nell’espansione melodica, che dà vita in diverse arie a un lirismo contenuto, interiorizzato; la retorica barocca degli affetti, contigua all’estetica del melodramma; la simbologia musicale che trasforma in pittura sonora le sollecitazioni testuali. Infine, la sapiente strategia nell’alternare gli interventi del coro e dei quattro solisti, cui spettano pezzi di taglio differente e almeno una grande occasione ciascuno. Meno virtuosistico il ruolo del tenore, che svolge invece, secondo la tradizione tedesca (si pensi alle Passioni bachiane) un ruolo preponderante di narratore. La registrazione qui proposta si rifà all’edizione edita dallo studioso händeliano Donald Burrows, che riprende la produzione curata dal compositore per il Covent Garden nel 1753 

L’oratorio si apre – come d’altra parte, presso Händel, anche le opere – con una Ouverture alla francese (Sinfony nell’autografo), forma celebrativa che dal Grand siècle di Lully aveva fatto scuola in Germania (si pensi alle Ouvertures orchestrali bachiane). La pagina è strutturata secondo le tradizionali tre sezioni: un Grave dall’incedere solenne; un Allegro moderato condotto con piglio energico dal violino I, in un contrappunto imitativo che alla costruzione rigorosa della fuga preferisce una più ariosa dinamica dialogica tra le sezioni dell’orchestra d’archi, che scambiano minuscole cellule tematiche; infine la ripresa simmetrica, ancorché ridotta ai minimi termini, della sezione introduttiva, a ribadire la severa tonalità d’impianto di mi minore. Il capovolgimento del modo (in mi maggiore) contribuisce a stagliare per contrasto, con evidenza abbagliante, la prima pagina vocale del Messiah, il Larghetto e piano con cui il tenore annuncia il verbo di consolazione predicato dal profeta. Formalmente un arioso (finché non si trasforma in vero e proprio recitativo accompagnato, a intonare l’ultimo versetto), il pezzo realizza in puro tono idillico, non lontano da certe consuetudini operistiche händeliane, il messaggio di Isaia, avvalendosi del pulsare regolare delle crome degli archi, a cui dapprima il violino I e poi la voce sovrappongono morbide e lunghe note tenute e una gestualità trattenuta, che conosce appena un sussulto al verbo «cry» (il medesimo modello di melodia e accompagnamento ricorre, in veste soltanto strumentale, nel Largo di apertura della Sonata a tre op. 2 n. 1, HWV 386b). Il solista si cimenta allora in un’aria di bravura, che si piega docile a seguire l’immaginario metaforico dell’esortazione profetica alla conversione (colmare le valli, appianare il terreno scosceso) con prolungati, acrobatici esercizi di pittura sonora. Cornice dell’aria, responsabile del tono festoso, è il ritornello orchestrale, che i violini mantengono nel registro acuto, fra trilli e incantevoli effetti d’eco. Il quadro introduttivo è completato da un coro che dissimula la sua scrittura mottettistica nell’arioso, libero svolgersi di un pensiero musicale dalla sottile, progressiva combinazione di soggetti contrastanti, corrispondenti a ciascuna porzione testuale, nell’astuta alternanza tra l’emergere scoperto di singole sezioni del coro e il ricompattarsi unitario dell’intera compagine vocale, con effetto immancabilmente felice.

La stentorea voce del basso (riservata a Dio nella tradizione liturgica del Sei-Settecento tedesco: ad esempio è la vox Christi nelle Passioni) richiama l’attenzione sul carattere terribile dell’avvento divino, in un drammatico accompagnato (tendente anch’esso all’arioso), aperto dagli archi con un perentorio arpeggio di re minore su ritmo puntato e vivacizzato dall’immagine apocalittica dell’intervento divino («shake»), mimato da voce e archi, mentre la seconda citazione biblica del testo viene intonata con un tradizionale e più neutro recitativo accompagnato. Le inquietudini del recitativo trovano compiuta espressione nella prima grande aria del Messiah, in origine per basso, ma qui eseguita nella versione più ambiziosa scritta da Händel nel 1750 per il contraltista Gaetano Guadagni, in cui si alternano per due volte un intenso Larghetto in re minore dalle fioriture delicatissime e un Prestissimo di furore, dominato dalla metafora del fuoco purificatore. Per il coro seguente il compositore parodiò il movimento conclusivo del duetto Quel fior che all’alba ride, fresco d’inchiostro nel 1741, che esordisce appunto con un’esposizione a due voci, poi calata in un tessuto contrappuntistico che si rinserra in occasione della seconda frase del breve testo, per riprendere la prima sezione variata e concludere con un nuovo Tutti. 

Un brevissimo recitativo conduce a una delle strutture più complesse dell’intera partitura, l’Aria con coro «O thou that tellest good Tidings to Zion», riservata ancora una volta al contralto e organizzata come un rondò che ripropone il tema, formidabile per freschezza e vitalità, esposto dai violini all’unisono nel ritornello introduttivo. Le sue ricorrenze sono intercalate a zone di «risacca» dove l’energico invito del testo a un’azione alacre conosce una tregua in cui si assaporano momenti di contrastante intensità espressiva, prima che, a sorpresa, il coro al completo intervenga ad avvalorare definitivamente, con la ripresa del tema, il tono dominante dell’aria. Un nuovo arioso del basso evoca dapprima lo smarrimento dell’umanità, irretita nella cecità morale, e in seguito, segnalata da una diversa formula di accompagnamento e dalla modulazione al maggiore, l’apparizione salvifica di Dio, il cui sorgere luminoso è dipinto dall’ottava ascendente percorsa tra semicrome dalla voce. Anche l’aria successiva, nuovamente in si minore, è chiamata a dipingere le tenebre, con mezzi differenti: Händel sceglie di accogliere la già scura voce del basso in un contesto timbrico cupo, prescrivendo che l’intera compagine degli archi suoni all’ottava col continuo. Questo nastro opaco, che attacca indugiando nelle appoggiature, si svolge lungo quattro riprese variate della medesima sezione musicale, conferendo un’intonazione uniforme all’intero testo (se il discorso comprensibilmente si schiarisce alla menzione della «great Light», particolarmente tenebrosa è invece la terza anta, in cui il basso si attarda nel registro grave, in corrispondenza della nuova porzione testuale, che evoca la «Shadow of Death»). Tanto più efficace risulterà allora l’erompere contrastante del coro «For unto us a Child is born», invenzione freschissima e memorabile con la quale Händel aveva aperto, il mese prima, il duetto No, di voi non vo’ fidarmi, HWV 189. Tracce del modello restano ben evidenti sin dall’attacco, chiaramente concepito per due voci, e persino nella prosodia: infatti l’accento immotivato su «For» si spiega solo se riportato all’originale «No», la stizzita apostrofe a Cupido qui parodiata. L’acclamazione dei titoli del Messia avviene invece con l’impiego solenne, in omofonia, del coro al completo, sul brillante accompagnamento dei violini (appare chiaro come Händel leggesse separati da un virgola gli appellativi «Wonderful» e «Counsellor», in realtà da interpretarsi come un’unica entità testuale). Una Pastorale (Pifa nell’autografo) introduce alla «scena» storica della Notte di Betlemme, secondo i codici vigenti nell’immaginario musicale barocco della musica di Natale, fantasia di una pastorizia della mente, più vicina alla silhouette idealizzata dell’Arcadia e alle eleganti statuine di Capodimonte che non agli antichi pastori della Palestina. 

Handel trovava la Pastorale nei Concerti grossi op. VI di Corelli, ma anche nella tradizione tedesca: a Lipsia il Thomaskantor Johann Schelle ne aveva introdotta una, intitolandola Pastorella, nel suo Actus Musicus auf WeyhNachten (1683), e pochi anni prima del Messiah il suo successore Johann Sebastian Bach aveva fatto altrettanto nell’Oratorio di Natale (1734). La gestualità trattenuta e cullante, l’andamento degli archi per terze e ottave, la melodia per grado congiunto e il metro di 12/8 preparano uno sfondo d’idillica serenità al soprano, che nel recitativo seguente narra l’episodio evangelico dell’annuncio ai pastori associandovi il timbro sopranile, simbolo delle creature angeliche. La scena è sapientemente organizzata attraverso la rigorosa alternanza di recitativi, che da semplici – rispondenti al tono della pura narrazione obiettiva e alla necessaria perspicuità del messaggio rivolto ai pastori – si accendono in accompagnati/ariosi sempre più febbrili, all’apparizione dell’angelo, Andante: gli arpeggi dei violini simboleggiano appunto l’essere soprannaturale) e della schiera dei suoi compagni, Allegro: qui i violini si prodigano in animate quartine), per sfociare nel grande coro che chiude la scena, dando voce alla moltitudine celeste. Per questa occasione festiva Händel aveva tenuto finora in serbo le trombe, prescrivendo che suonino «in disparte», indicazione mutata in un secondo tempo in «da lontano e un poco piano»: un’attenzione alla valenza spaziale del suono che si riscontra anche nel finale del coro, quando gli archi «senza ripieno» (ovvero uno per parte), rimasti soli «in scena», suoneranno prima piano e poi pianissimo, fino a spegnersi in un trillo, a imitazione dell’allontanamento progressivo degli angeli in cielo. 

La nascita del Messia è accolta dalla prima grande aria col da capo (la forma principe del melodramma, ormai da un ventennio nel 1741), riservata al soprano, che si prodiga in impegnativi melismi e colorature nella sezione A, cullando la promessa di pace della sezione B in un clima espressivo non lontano da pagine come la Pastorale (piano, grado congiunto della melodia, ecc.). Il contralto propone l’annuncio messianico con un breve recitativo che prepara il celebre duetto «He shall feed His Flock like a Shcpherd», in cui il solista verrà affiancato dal soprano per una celebrazione affatto memorabile dell’icona del Buon Pastore, secondo quei canoni di «pastoralità» tardobarocca cui si accennava in occasione della Pifa. L’incanto melodico che promana dal duetto si giova anche del carattere ipnotico della melodia, che muta timbro vocale ma permane identica, ricorrendo di continuo. La Parte Prima del Messiah, terminata venerdì 28 agosto 1741, si chiude con le note del già menzionato duetto Quel fior che all’alba ride, di cui il coro «His Yoke is easy» imita il primo movimento, arricchendo la scrittura per due voci soliste con ritornelli corali che amplificano il tono festoso del modello profano.

Simmetricamente alla Parte Prima, anche la Seconda si apre con un grande pannello solenne in tonalità minore e, come accadeva lì nella Sinfony, anche qui il riferimento stilistico è l’Ouverture alla francese, ai cui stilemi si rifa il coro «Behold the Lamb of God», aperto dalla gestualità, dal sapore tragico, di un’ottava ascendente e incessantemente pervaso dal ritmo puntato: una teatralità che ben si accorda al dramma della Passione di Cristo che sta per «andare in scena». Una monumentale aria col da capo, «He was despised», propone ancora una volta il timbro del contralto a esprimere un lamento sublime, che al modello melodrammatico attinge il lirismo diretto e toccante. Gli archi la introducono con un delicato cesello, a preparare un dialogo per cellule minime con la voce, che a sua volta procederà soltanto per lacerti tematici, per frammenti di una sola battuta. La sezione centrale si accenderà invece convulsa alla memoria della flagellazione di Cristo, evocata dalla profezia isaiana. Ma il IV Carme del Servo sofferente, che Händel sta sviluppando in questa aria e nei tre pezzi successivi, raggiunge nel coro la lettura più drammatica, fondata su una molteplicità di elementi musicali: l’accompagnamento feroce degli archi (ritmo puntato, note ribattute, in staccato), l’icastico «Surely» declamato in omofonia dal coro (con piccola deroga rispetto alla prosodia inglese: il compositore la intende infatti come parola trisillabica), le note tenute che rappresentano i verbi «borne» e «carried», i grumi dissonanti al pensiero della punizione cruenta e infine l’arioso gioco contrappuntistico con cui il coro si chiude. Terza declinazione di questo testo venerando è l’unico coro in stylus antiquus dell’intera partitura, che accompagna un severo soggetto (patrimonio comune nella scrittura contrappuntisca del Settecento: si pensi al Kyrie del Requiem di Mozart) con un controsoggetto più mosso, mentre gli archi raddoppiano disciplinatamente le voci. Con ennesima svolta espressiva, Händel si lascia sedurre dall’immagine naturalistica delle pecore disperse (il tema, pur tratto dal citato Duetto HWV 189, si adatta bene all’immagine delle pecore: se ne ricorderà Mendclssohn per il Coro dei Profeti di Baal, n. 14 dell’oratorio Elias) in un coro che combina, con straordinaria solare naturalezza, omofonia e gioco dialogico delle voci, finché il tono del testo biblico non richiama il compositore alla severità dell’Adagio conclusivo. Un drammatico accompagnato, caratterizzato dal tragico ritmo puntato del coro, conduce al magnifico coro contrappuntistico «He trusted in God, that he would deliver him», il cui tema memorabile, se si mette tra parentesi la prima nota, coincide nel modello ritmico col coro introduttivo della Cantata BWV 171, composta da Bach per il Capodanno 1729, a testimonianza di una diffusa koinè del Musizieren tardobarocco. Alla desolazione degli accordi tenuti degli archi si affida invece l’accompagnato del tenore, a commento dell’immagine proposta dal Salmo, che prepara una breve pagina dal lirismo contenuto, elegiaco. La contemplazione della Passione prosegue nell’analoga coppia recitativo/aria affidata al soprano: ed è proprio con quest’ultima, un’arietta leggera, in la maggiore, agli antipodi dell’angoscia, che la Parte Seconda cambia di segno, avviandosi alla celebrazione del Cristo trionfatore della morte. 

Un coro memorabile, che si diparte da un tema impiegato nella poco nota Sonata a tre in do maggiore HWV 403 (poi confluita nell’Allegro d’apertura della Sinfonia del Saul), traduce in un’articolata struttura musicale dialogica la liturgia antifonale dell’antichissimo inno al Signore del cosmo (gli eserciti erano in origine le stelle del cielo). Introdotto da un brevissimo recitativo, il tributo della corte angelica al Messia si esprime attraverso il ricorso al magistero contrappuntistico del compositore tedesco, con un coro talvolta omesso, a torto, nelle esecuzioni dell’oratorio. Riscritta per la voce di contralto del castrato Guadagni, l’aria bipartita «Thou art gone up on High» organizza l’oscuro passo salmodico (il testo risulta corrotto alla fonte) in segmenti giustapposti, ripetendone integralmente l’esposizione, adeguatamente variata. In puro stile da anthem cerimoniale, il coro successivo drammatizza un altro versetto del medesimo salmo, sfruttando per due volte il contrasto tra la singola parola divina e la moltitudine dei suoi predicatori (in realtà l’esercito divino, nell’originale antico). Il complesso seguente nacque nel 1745, probabilmente su insistenza del librettista. Si tratta della zona testuale più problematica dell’intero oratorio, intonata da Händel nelle forme del duetto con coro e dell’arioso che prevede l’accostamento complementare di aria e coro, analogamente a quanto avverrà nella coppia successiva, in cui il coro sostituisce il da capo dell’operistica aria «di furore» che lo precede. Un semplice raccordo in recitativo semplice conduce a un pezzo drammatico per il tenore, in cui l’azione del Dio-sovrano contro i suoi nemici, micidiale e facile al tempo stesso, viene rappresentata dal gesto dei violini all’unisono (il sinistro carillon nell’acuto e l’inabissarsi nel registro grave) congiuntamente alla condotta contenuta della voce. A chiusura della Parte Seconda – dunque come culmine della vicenda di Passione, Morte e Resurrezione del Messia – Händel ideò, domenica 6 settembre 1741, il morceauche ha conosciuto la popolarità più vasta e universale: l’Halleluja! corale. La tradizione dell’anthem, e del celebrativo coronation anthem in particolare, detta al compositore una pagina articolata, costruita come giustapposizione e combinazione di temi diversi, nella consueta, limpida dialettica tra l’interesse suscitato dal contrappunto e l’efficacia dell’omofonia; pagina sapientemente congegnata, fin nel dettaglio, nel dosaggio degli effetti e nel climax infallibile della tensione; pagina, infine, spesso consegnata a risorse canore da kolossal hollywoodiano, ma concepita in realtà per la freschezza di un’esecuzione in cui la finezza dei contrasti di dinamica rimanga ben udibile (vengono sì impiegati trombe e timpani, ma gli archi suonano talvolta anche «senza ripieno»), a testimoniare l’esito implacabile di un meccanismo sonoro che non necessita di un eccezionale impatto fonico per produrre il proprio miracolo.

Come la Prima, anche la breve Parte Terza del Messiah si apre con l’incanto di un Larghetto in mi maggiore, la distesa aria del soprano che irretisce l’ascoltatore in un gioco di continue riprese del medesimo, evocativo testo dal Libro di Giobbe, calato in una melodia dal sottile equilibrio e dall’espressione quasi pudica. Musicalmente la ripresa circolare della prima sezione e la permanenza di un’unica formula di accompagnamento garantiscono una profonda unità all’aria. Di grande efficacia, nella sua estrema semplicità, è il coro seguente, in cui il contrasto vita/morte è rappresentato plasticamente dal capovolgimento dei parametri musicali. L’ultimo dittico recitativo/aria spetta al basso, il cui morceau de résistance, un’aria grande dal segno (cioè da capo, con l’elisione del solo ritornello strumentale introduttivo), è stato tenuto in serbo per l’evocazione apocalittica del giorno del giudizio, coadiuvata dalla tromba concertante, sul celebre passo paolino di Corinzi 15 (anche Bach, seguendo il medesimo suggerimento testuale, aveva impiegato la tromba nella Cantata BWV 127, un capolavoro del 1725). L’estrema coppia di numeri solistici tocca in realtà al contralto, grande protagonista dell’oratorio. Da una pagina profana (l’apertura di Se tu non lasci amore, HWV 193, scritta attorno al 1722) Händel ha tratto il duetto per contralto e tenore, l’unico duetto vero e proprio della partitura, collocato nella medesima posizione che ospitava il confronto tra due voci nei melodrammi del compositore. La pagina sfocia senza soluzione di continuità in un coro che la completa. La segmentazione del testo in pannelli giustapposti porta all’ennesima distesa lirica per l’ultima aria dell’oratorio, incastonata tra l’articolata struttura che l’ha preceduta e il grandioso pannello conclusivo. 

Quest’ultimo consiste in un solenne complesso corale, in cui i fasti dell’anthem cerimoniale e le costruzioni astratte del contrappunto stringono l’estrema alleanza, in una successione di momenti contrastanti, corrispondenti ad altrettanti strumenti espressivi messi al servizio di una grandiosità che brucia ogni residuo di retorica per evocare l’icona magnetica dell’Agnello dell’Apocalisse su cui si era aperta la Parte Seconda dell’oratorio.

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