Le Suites Orchestrali BWV1066 – BWV1069

Con i Concerti Brandeburghesi, le quattro Suites per orchestra – numerazione progressiva del catalogo bachiano da BWV1066 a BWV1069 – costituiscono, nell’ambito della musica profana d’intrattenimento, il risultato probabilmente più alto fra quelli conseguiti da Bach nel corso del suo soggiorno a Köthen (fra il 1717 e il 1723). Nella cittadina sassone Bach ricopriva la carica di Kapellmeister (esonerato però dalla produzione religiosa) presso la corte del principe Leopold, mecenate sensibile alla musica ed incline, come del resto la maggior parte degli altri sovrani tedeschi, a rendere fastosa la vita della propria corte con uno sfarzo apertamente ispirato all’esempio di Versailles. Questa penetrazione del gusto francese in terra tedesca, fertile trasfusione di stimoli intellettuali, trovava una realizzazione di particolare significato proprio nella diffusione della musica strumentale di danza (espressione dell’elegante disimpegno della corte francese) secondo gli stilemi elaborati da Lully.

Destinato ad una funzione ricreativa e di intrattenimento, il genere della suite di danze (le cui origini risalivano al Rinascimento) aveva trovato proprio in Germania una struttura codificata nella successione di quattro brani: Allemanda, Corrente, Sarabanda, Giga (fra le quali potevano eventualmente essere inserite altre danze). Non a caso, tuttavia, tutte e quattro le suites bachiane – indicate dai contemporanei come ouvertures, per metonimia dal primo brano di ciascuna delle composizioni – espellono sistematicamente da questa successione consacrata proprio l’Allemanda, danza tedesca per eccellenza, ed accolgono solo occasionalmente le altre tre danze; la maggior parte dei pezzi prescelti consiste invece in danze la cui matrice francese è palese già dai semplici nomi (ad esempio: bourrée, passepied, badinerie, réjouissance).

In questo il ciclo delle suites di Bach aderiscono perfettamente alla loro funzione e all’estetica del tempo. Il modello francese però, assunto dal compositore come principio antologico generale, viene applicato con una libertà di rielaborazione, una fertilità inventiva e una consapevolezza tecnica che distinguono le quattro composizioni dal conformismo della sterminata produzione contemporanea, e conferiscono a ciascuna di esse un profilo specifico.

Quando non è possibile rimediare alle lacune della documentazione, le ipotesi ci soccorrono nel rendere la figura di Bach più sfumata e problematica, meno rinchiusa nel guscio di una devozione severa e più aperta al mondo, per così dire, tanto da rivelarsi disponibile anche al confronto con le mode culturali del suo tempo. In questa prospettiva, anche le opere sacre di Bach diventano una testimonianza importante e contribuiscono a mettere in questione i pregiudizi riferiti alla sua presunta ortodossia: in continuazione si ritrovano nelle cantate moduli che derivano dalle arie d’opera, dallo stile galante della musica francese, da un gusto semplificato della melodia che testimonia l’influsso dell’arte italiana. Non deve perciò sorprendere il fatto che la musica sacra di Bach sia stata spesso contestata dai contemporanei per la sua spiccata teatralità, cioè per l’abuso di un sensualismo che agli esponenti più rigidi della chiesa luterana appariva decisamente fuori luogo: la mescolanza di sacro e profano è il modo con cui il compositore si teneva al passo con i nuovi linguaggi e alimentava una tensione sempre latente nella sua musica. L’elemento generatore del conflitto è quello legato alla sfera mondana, all’osservazione dei costumi e dei risvolti sociali presenti nella musica. Nessun dogmatismo, nessuna aprioristica professione di fede riesce a rimuoverne l’efficacia e il peso: l’ipotesi più attendibile, dunque, è che al di là di quanto avviene nelle opere sacre, un elemento così importante debba trovare espressione in un altro settore dell’opera di Bach, che esso rappresenti un momento di ispirazione più leggera che si contrappone alla vena speculativa della sua produzione più conosciuta.

Quando ci avviciniamo alle opere per orchestra in nostro possesso, dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che non sono pagine isolate, singole creazioni trattate dal compositore con un certo disinteresse, che non si tratta di un’opera minore da affiancare a quella maggiore rappresentata dalla musica sacra o di ricerca, che dunque le proporzioni attuali del catalogo bachiano non riflettono in modo compiuto la sua produzione né dal punto di vista della quantità, né da quello degli interessi coltivati dall’autore durante la sua vita. Sappiamo ad esempio che a Lipsia, dove il suo ufficio principale era quello di Kantor della scuola di San Tommaso, Bach diresse dal 1729 al 1740 uno dei più importanti Collegia Musica della Germania, ovvero uno di quei complessi ai quali era di fatto delegata l’esecuzione di musica orchestrale al di fuori delle chiese e delle corti. Formati per lo più da studenti e da borghesi di ottima preparazione musicale, i Collegia Musica collaboravano all’epoca con i maggiori compositori in circolazione proprio per la qualità delle esecuzioni e per la libertà creativa che garantivano loro: prima di Bach, il Collegium Musicum di Lipsia era stato diretto da Telemann, il quale in seguito avrebbe fondato altri complessi dello stesso tipo ad Amburgo, portandoli a livelli considerati a quel tempo straordinari. Sembra inoltre che per tutto il decennio in cui ne curò la direzione, il lavoro con il Collegium Musicum abbia assorbito Bach ben più dell’impegno alla cantoria di San Tommaso. Delle opere preparate per questo ramo della sua attività ci è rimasto pochissimo, al punto che per conoscere meglio l’opera per orchestra di Bach bisogna risalire a un’epoca precedente, al periodo in cui Bach era alle dipendenze del principe Leopold di Anhalt-Köthen. Qui, fra il 1717 e il 1723, videro la luce le sue composizioni che oggi conosciamo e si perfezionò soprattutto uno stile molto personale e riconoscibile. Ai tempi di Köthen risale per esempio la confezione dei sei Concerti brandeburghesi, nei quali Bach riunì pagine composte in realtà anche in anni precedenti, in modo da organizzare la raccolta come una vera e propria silloge dello stile concertistico proprio e di quello dell’età barocca. Ma ai tempi di Köthen sono da riportare anche le quattro Ouvertures BWV 1066-1069 e la maggior parte dei concerti solistici che ci sono pervenuti, compreso il Concerto per violino e oboe 1060a.

Le Ouvertures devono il loro nome alla pagina che le introduce, ma la loro struttura è quella tipica delle suites: una libera successione di movimenti ispirati a ritmi di danza e articolati secondo un criterio che proviene direttamente dall’uso francese. Bach tuttavia non rispetta strettamente lo schema delle suites portando la consueta dose di innovazione poi regolarmente “copiata” dai successori.

Ton Koopman ci guiderà all’ascolto di queste complesse pagine bachiane

Suite n° 1 in do maggiore BWV 1066 (👉🏻 https://youtu.be/gjhHvEvuXZg Orchestra del Teatro La Fenice Direttore Ton Koopman)

1. Ouverture.2. Corrente.3. Gavotta I e II.4. Furlana.5. Minuetto I e II. 6. Bourrée I e II.7. Passepied I e II.

Organico: oboe I e II, fagotto, violino I e II, viola e basso continuo.

Suite n° 2 in si minore BWV 1067 (👉🏻 https://youtu.be/w26Qkm4wbGk The Amsterdam Baroque Orchestra Ton Koopman)

1. Ouverture.2. Rondò.3. Sarabanda.4. Bourrée I e II.5. Polonaise e Double. 6. Minuetto.7. Badinerie.

Organico: flauto traverso, violino I e II, viola e basso continuo.

Suite n° 3 in re maggiore BWV 1068 (👉🏻 https://youtu.be/em_qahr4CLM Orchestra del Teatro La Fenice Direttore Ton Koopman)

1. Ouverture.2. Aria.3. Gavotta I e II. 4. Bourrée I e II. 5. Giga.

Organico: tromba I, II e III, timpani, oboe I e II, violino I e II, viola e basso continuo.

Suite n° 4 in re maggiore BWV 1069 (👉🏻 https://youtu.be/SP8_uZHKN-4 The Amsterdam Baroque Orchestra Ton Koopman)

1. Ouverture.2. Bourrée I e II. 3. Gavotta.4. Minuetto I e II. 5. Réjouissance.

Organico: oboe I, II e III, fagotto, tromba I, II e III, timpani, violino I e II, viola e basso continuo.

Lascia un commento