Aria con 30 variazioni in sol maggiore per clavicembalo BWV 988

Variazioni Goldberg

Movimenti:

  1. Aria
  2. Variazione 1 – a 1 manuale
  3. Variazione 2 – a 1 manuale
  4. Variazione 3 – canone all’unisono a 1 manuale
  5. Variazione 4 – a 1 manuale
  6. Variazione 5 – a 1 ovvero 2 manuali
  7. Variazione 6 – canone alla seconda a 1 manuale
  8. Variazione 7 – a 1 ovvero 2 manuali
  9. Variazione 8 – a 2 manuali
  10. Variazione 9 – canone alla terza a 1 manuale
  11. Variazione 10 – fughetta a 1 manuale
  12. Variazione 11 – a 2 manuali
  13. Variazione 12 – canone alla quarta
  14. Variazione 13 – a 2 manuali
  15. Variazione 14 – a 2 manuali
  16. Variazione 15 – canone alla quinta in moto contrario a 1 manuale. Andante (sol minore)
  17. Variazione 16 – ouverture a 1 manuale
  18. Variazione 17 – a 2 manuali
  19. Variazione 18 – canone alla sesta a 1 manuale
  20. Variazione 19 – a 1 manuale
  21. Variazione 20 – a 2 manuali
  22. Variazione 21 – canone alla settima (sol minore)
  23. Variazione 22 – alla breve a 1 manuale
  24. Variazione 23 – a 2 manuali
  25. Variazione 24 – canone all’ottava a 1 manuale
  26. Variazione 25 – a 2 manuali (sol minore)
  27. Variazione 26 – a 2 manuali
  28. Variazione 27 – canone alla nona
  29. Variazione 28 – a 2 manuali
  30. Variazione 29 – a 1 ovvero 2 manuali
  31. Variazione 30 – quodlibet a 1 manuale

Organico: Clavicembalo
Composizione: 1741
Edizione: B. Schmid, Norimberga, 1741 – 1742

Le Variazioni Goldberg, uno dei massimi monumenti della letteratura tastieristica, furono pubblicate nel 1742, quando Bach aveva il titolo di compositore della corte reale di Polonia ed elettorale di Sassonia. Fino ad allora Bach aveva dimostrato poco interesse per questa forma (aveva scritto soltanto un’altra raccolta del genere, una serie di pezzi poco impegnativi “alla maniera italiana”), e il fatto che nonostante ciò Egli si sia impegnato nella costruzione di un edificio di grandiosità senza precedenti non può che suscitare molta curiosità intorno alle origini dell’opera. Questa curiosità dovrà però rimanere insoddisfatta poiché tutti i dati ancora esistenti ai tempi di Bach sono stati poi occultati dai suoi biografi romantici, affascinati da una leggenda che, malgrado la sua pittoresca inverosimiglianza, è difficile confutare.

A chi non la conoscesse diremo in breve che secondo la tradizione l’opera sarebbe stata commissionata da un tal conte Keyserling, ambasciatore di Russia presso la corte di Sassonia, il quale aveva alle proprie dipendenze come musicista di palazzo uno dei migliori allievi di Bach, Johann Gottlieb Goldberg. Keyserling, che pare soffrisse spesso di insonnia, chiese al maestro di scrivere qualche riposante brano per tastiera che lo stesso Goldberg potesse suonargli per conciliargli il sonno. Se la cura ebbe buon effetto, è lecito nutrire qualche dubbio sulla qualità dell’interpretazione che il giovane Goldberg doveva dare a questa partitura incisiva e stuzzicante e a dirla tutta assai poco propedeutica al sonno. E anche se non ci facciamo la minima illusione sull’indifferenza da vero professionista con cui Bach considerava le restrizioni imposte alla sua libertà artistica, è difficile credere che i quaranta luigi d’oro offertigli da Keyserling siano stati l’unico motivo del suo interesse per una forma altrimenti sgradita.

Anche da una conoscenza appena superficiale – un primo ascolto o una rapida scorsa al testo musicale – salterà subito all’occhio la sconcertante incongruenza fra la grandiosità delle variazioni e la modestia della sarabanda, che ne forma e stimola lo spunto. Anzi, si parla tanto spesso dello sgomento suscitato dall’impianto formale della composizione nei non iniziati, smarriti fra i rami lussureggianti dell’albero genealogico dell’aria, che sarà forse utile esaminare più da vicino la radice per determinarne (con la debita delicatezza, naturalmente) le facoltà generative.

Da un’aria per variazioni siamo usi esigere almeno uno dei seguenti due requisiti: un tema con una curva melodica che invochi letteralmente l’abbellimento, oppure una base armonica che, ridotta allo stato fondamentale, appaia gravida di promesse e atta ad uno sfruttamento intensivo. Del primo procedimento si conoscono numerosi esempi dal Rinascimento ai nostri giorni, ma la sua massima fioritura nasce dall’idea rococò del tema con variazioni; del secondo metodo, che, stimolando l’elaborazione lineare, suggerisce una certa analogia con il basso ostinato della passacaglia, sono un memorabile esempio le Trentadue Variazioni in do minore WoO 80 di Beethoven. La stragrande maggioranza dei contributi di rilievo a questa forma non ammette tuttavia una collocazione precisa nell’una o nell’altra di queste due grandi categorie, le quali del resto descrivono piuttosto i poli estremi della premessa operativa dell’idea di variazione, al cui interno è la fusione di tali qualità che costituisce il vero banco di prova per le facoltà inventive del musicista. Un esempio classico, da manuale, sono le Variazioni sull'”Eroica” op.35 sempre di Beethoven, in cui le due formule, prima usate separatamente, confluiscono infine in una fuga dove il motivo melodico funge da controsoggetto al tema del basso delle variazioni.

Nelle Variazioni Goldberg viene usata come passacaglia la sarabanda tratta dal Quaderno di Anna Magdalena Bach (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Anna_Magdalena_Bach). O meglio, soltanto la linea del basso è riprodotta nelle variazioni, dove viene peraltro elaborata con una flessibilità ritmica sufficiente a soddisfare le contingenze armoniche di strutture contrappuntistiche tanto diverse quanto possono esserlo un canone su ogni grado della scala diatonica, due fughette e perfino un quodlibet (forma ottenuta dalla sovrapposizione di melodie popolari dell’epoca). Le necessarie alterazioni non attenuano in alcun modo l’attrazione gravitazionale esercitata da questo basso magistralmente proporzionato sulla moltitudine di figurazioni melodiche che di volta in volta lo abbelliscono: anzi, nella sua maestosità, esso lega fra di loro le variazioni con la sicurezza sovrana della propria inevitabilità. La sua struttura è in sé talmente salda e completa da apparire poco adatta alla funzione di basso di ciaccona, soprattutto per la ripetitività del suo motivo cadenzante. Esso non evoca minimamente quell’anelito a un completamento che è implicito nella prima esposizione, tradizionalmente concisa, di un motivo di ciaccona; anzi, si estende spensieratamente su un territorio armonico così ampio che, ad eccezione delle tre variazioni in minore (la quindicesima, la ventunesima e la venticinquesima), in cui viene subordinato alle esigenze cromatiche di quella tonalità, i suoi rampolli non hanno alcuna necessità di esplorarne, di realizzarne e accentuarne gli elementi costruttivi.

Data la costanza della base armonica, sarebbe logico pensare che lo scopo principale delle variazioni fosse quello di illuminare le sfaccettature tematiche nell’ambito melodico del tema dell’aria. Ma ciò non avviene, perché la sostanza tematica, un soprano docile ma ricco di abbellimenti, possiede un’omogeneità intrinseca che non lascia nulla in eredità alla sua discendenza e che, per quanto riguarda la ripresentazione tematica, viene completamente dimenticata nel corso delle trenta variazioni. Si tratta insomma di una piccola aria curiosamente autonoma, che si direbbe cerchi di evitare qualsiasi atteggiamento genitoriale, di ostentare una placida indifferenza per la sua progenie, di non manifestare alcuna curiosità per la propria ragion d’essere. La prova migliore di questa noncuranza è il precipitoso esplodere della prima variazione; che interrompe di colpo la calma precedente. Una simile aggressività non è certo il comportamento che ci si aspetta dalle variazioni introduttive, le quali manifestano di solito una fanciullesca docilità verso il tema che le precede imitandone l’andamento e conducendosi con la modesta consapevolezza della propria funzione attuale ma con un deciso ottimismo quanto alle prospettive future. Nella seconda variazione troviamo il primo esempio della confluenza di queste qualità parallele: ecco lo strano miscuglio di mite compostezza e piglio autorevole che contraddistingue l’io virile delle Variazioni Goldberg.

Forse, con l’attribuire alla composizione musicale caratteristiche che rispecchiano soltanto l’approccio analitico dell’esecutore, mi sono involontariamente avventurato in un gioco pericoloso. Si tratta di una pratica cui è particolarmente facile indulgere nella musica di Bach, che non contiene indicazioni né di tempo né dinamiche; dovrò quindi evitare con cura che l’entusiasmo di una convinzione interpretativa si presenti come l’inalterabile assolutezza della volontà dell’autore. Inoltre, come ha saggiamente osservato Bernard Shaw, fra i compiti del critico non rientra l’analisi grammaticale.

Con la terza variazione hanno inizio i canoni, che da ora in poi ricorreranno una volta ogni tre brani dell’opera. Ralph Kirkpatrick ha efficacemente raffigurato le variazioni con una similitudine architettonica: «Delimitate alle estremità da due pilastri, uno dei quali è formato dall’aria e dalle prime due variazioni, l’altro dalle due penultime variazioni e dal quodlibet, le variazioni sono raggruppate come elementi di un complesso colonnato; ogni gruppo è composto di un canone e di un elaborato arabesco a due manuali, racchiudenti a loro volta un’altra variazione a carattere indipendente».

Nei canoni l’imitazione letterale compare soltanto nelle due voci superiori, mentre la parte di accompagnamento, presente ovunque tranne che nell’ultimo canone alla nona, ha quasi sempre piena libertà di trasformare il tema del basso in un complemento opportunamente acquiescente.

A volte ciò si traduce in un dualismo voluto di preminenza tematica: il caso estremo è quello della diciottesima variazione, dove le voci del canone si trovano a dover sostenere la parte della passacaglia, capricciosamente abbandonata dal basso.

Un contrappunto meno anomalo si nota nella risoluzione dei due canoni in sol minore (il quindicesimo e il ventunesimo), in cui la terza voce entra nel complesso tematico del canone, riproponendo il suo segmento in una versione ricca di figurazioni e dando luogo a un dialogo di bellezza incomparabile.

Ma questa ricercatezza contrappuntistica non s’incontra soltanto nelle variazioni canoniche: in parecchie variazioni “a carattere indipendente” minuscole cellule tematiche vengono sviluppate sino a creare complesse trame lineari. Esempi tipici sono la conclusione fugale dell’ouverture alla francese (sedicesima), la variazione alla breve (ventiduesima) e la quarta variazione, in cui sotto una brusca rusticità si cela un elegante labirinto di stretti. In realtà questo oculato sfruttamento di mezzi volutamente limitati supplisce in Bach all’identificazione tematica fra le variazioni. Poiché la melodia dell’aria, come già detto, si sottrae a qualunque rapporto col resto dell’opera, ogni singola variazione consuma voracemente il potenziale della propria cellula tematica, presentando così un aspetto assolutamente soggettivo dell’idea di variazione. Quest’integrazione fa sì che, con la dubbia eccezione della ventottesima e della ventinovesima variazione, non vi sia nemmeno un esempio di collaborazione o di estensione tematica fra due variazioni consecutive.

Nel tessuto a due voci degli “arabeschi” l’importanza data all’esibizione virtuosistica limita l’impegno contrappuntistico a pratiche non troppo elaborate, come l’inversione della risposta conseguente.

La terza variazione in sol minore (venticinquesima ndr) occupa una posizione chiave. Dopo un generoso e caleidoscopico tableau formato da ventiquattro quadretti che illustrano, con sfumature meticolosamente calibrate, l’indomabile elasticità di quello che è stato definito «l’io delle Goldberg», ci viene concesso di raccogliere e cristallizzare tutte quelle impressioni di profondità, delicatezza e virtuosismo, indugiando al tempo stesso pensosi nella languida atmosfera di una pagina di umore quasi chopiniano. L’apparizione di questa stanca e malinconica cantilena è un capolavoro di intuito psicologico.

Con rinnovato vigore irrompono, a questo punto, le variazioni dalla ventiseiesima alla ventinovesima, seguite da quell’esuberante dimostrazione di deutsche Freundlichkeit [gentilezza tedesca] che è il quodlibet. Quindi, quasi fosse incapace di trattenere un sorriso compiaciuto davanti ai progressi della sua progenie, ecco la sarabanda originale che, da bravo genitore, torna per bearsi nella luce riflessa di un’aria col da capo.

Una siffatta conclusione del grande ciclo non ha nulla di casuale, e il ritorno dell’aria non è un semplice gesto di benevolo commiato, ma adombra un’idea di perpetuità che rivela la natura essenzialmente incorporea delle Variazioni Goldberg e simboleggia il loro rifiuto di quell’impulso generativo.

Ed è proprio il riconoscere la loro sdegnosa indifferenza per il rapporto organico fra la parte e il tutto a farci sospettare per la prima volta la vera natura del particolarissimo vincolo che le unisce.

La nostra analisi tecnica ci ha rivelato che non c’è compatibilità fra l’aria e la sua progenie, e che il basso vitale, per la sua stessa perfezione lineare e le sue implicazioni armoniche, blocca la propria crescita e impedisce il consueto sviluppo in forma di passacaglia verso un punto culminante. Sempre per via analitica abbiamo osservato che il contenuto tematico dell’aria rivela inclinazioni altrettanto esclusive, che in ogni variazione l’elaborazione della melodia obbedisce a regole proprie e che non vi sono quindi piattaforme di variazioni successive basate su princìpi strutturali simili, quali sono quelli che danno una coerenza architettonica alle variazioni di Beethoven e di Brahms. E tuttavia, senza ricorrere all’analisi, abbiamo sentito la presenza, alla base di tutto, di un’intelligenza coordinatrice, che abbiamo definita «io». Siamo quindi costretti a rivedere i nostri criteri di giudizio, tutt’altro che idonei a sindacare su quell’unione di musica e metafisica che è il campo della trascendenza tecnica.

In essa il tema non è terminale ma radiale, le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza, un’orbita di cui la passacaglia ricorrente costituisce il punto focale.

È una musica, in breve, che non conosce né inizio né fine, una musica senza un vero punto culminante e senza una vera risoluzione.

Essa ha quindi un’unità che le viene dalla percezione intuitiva, un’unità che nasce dal mestiere e dalla rigorosità, che è ammorbidita dalla sicurezza di una maestria consumata e che qui si rivela a noi, come avviene tanto raramente in arte, nella visione di un disegno inconscio, che esulta su una vetta di potenza creatrice.

Ascoltiamo e vediamo dal facsimile del manoscritto l’esecuzione del 1955 del pianista canadese Glenn Gould 👉🏻 https://youtu.be/jWshUm0Juxk

Vi lascio con questo spunto “meditativo” di Massimo Mila

Stupendo scenario di fastosità barocca con maestose scalee secentesche, ritmiche architetture di parchi regali. Scritte per distrarre l’insonnia d’un ricco signore, percorrono la più varia gamma di espressioni senza mai smarrire il filo dello sviluppo logico: si spingono talora a scatti giovanili di serenità e di gioia, e s’immergono (25a variazione) nelle profondità più misteriose e sacre del dolore umano. Nel giubilo dell’ultima variazione, nel suo magico moltiplicarsi delle voci par quasi d’avvertire come un riso gagliardo d’uomo e di gigante, a termine della meravigliosa fatica“.

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